A Mons. Vincenzo Zani il Premio Franciacorta 2025. FLest lo ha intervistato, con uno sguardo all'attualità, alla sua rilevante esperienza di servizio alla Chiesa e al futuro
Ad "un ambasciatore di pace, che si è distinto per le sue opere in campo religioso e umanitario". È la motivazione del Premio Franciacorta consegnato nei giorni scorsi a Mons. Angelo Vincenzo Zani.
Sacerdote dal 1975 è stato chiamato sempre ad impegni per l’educazione, la scuola e l’università, prima nella sua Diocesi, quella di Brescia, poi nella Conferenza Episcopale Italiana e dal 2002 in Vaticano nella Congregazione per l’Educazione Cattolica. Nel 2010 ha avviato una organizzazione non governativa che ha nome SFERA dalle iniziali delle parole Sviluppo, Fraternità, Educazione, Responsabilità e Accoglienza, dando vita ad un importante progetto educativo nella Repubblica Democratica del Congo.
Ha ricevuto l’ordinazione episcopale da Papa Benedetto XVI il 6 gennaio 2013. Ha lavorato a stretto contatto anche con Papa Francesco che nel settembre del 2022 lo ha nominato Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa.
Mons. Zani, che ha compiuto 75 anni nel mese di marzo e come stabilito dal Codice di diritto canonico ha rinunciato all'incarico per raggiunti limiti di età, è uno dei Vescovi amici del Movimento dei Focolari.
La consegna del Premio Franciacorta è stata l'occasione per FLest di intervistare Mons. Zani, con uno sguardo all'attualità, alla sua rilevante esperienza di servizio alla Chiesa e al futuro.
Mons. Zani, come si può essere “ambasciatori di pace” oggi, in concreto?
Nel saluto dalla Loggia delle benedizioni della basilica di San Pietro, subito dopo la sua elezione a pontefice, Leone XIV ha augurato una “pace disarmata e disarmante”.
E’ un’espressione molto precisa che sintetizza il concetto di pace, già bene illustrato nei documenti del Concilio Vaticano II, dove si afferma che “la pace non è semplice assenza di guerra… ma nasce dall’amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di Cristo, che promana dal Padre” (GS, 78). “Pace”, infatti, è la prima parola che ha pronunciato come saluto e augurio Gesù subito dopo la risurrezione, cioè dopo avere amato gli uomini fino a dare la sua vita sulla croce.
Da qui si deduce che l’ambasciatore di pace è colui che ama il prossimo attivando tutte le sfumature dell’amore: pazienza, perdono, fiducia, generosità, perseveranza, dialogo, dono, rispetto, accoglienza, creatività, disinteresse. Chi ama non conosce le armi del conflitto ed è convinto che la testimonianza di un amore sincero e concreto ha la capacità di disarmare chi è aggressivo e violento.
Ciò che vale sul piano dei rapporti interpersonali vale anche a livello di rapporti tra culture, religioni, popoli e nazioni. L’amore non è un puro sentimento emotivo, ma un bene vitale e una energia che deve incarnarsi e infondere un’anima dentro i vari campi dell’esistenza umana e sociale: quello dei diritti e doveri, della giustizia, dell’economia, della cooperazione, del bene comune.
Lei ha ricoperto diversi delicati incarichi. Per quanto possibile, qual è stato il più impegnativo? Quale ha dato i risultati più positivi?
Nell’arco di circa 25 anni, le esperienze sono state molteplici, varie e tutte interessanti. Tra queste, una è particolarmente rilevante. Nel 2016 i vescovi del Rwanda, volendo ricordare il dramma del genocidio tra Hutu e Tutsi che fece quasi un milione di vittime e che lasciò una scia di tensione ancora presente nel paese, mi invitarono ad un evento destinato a lanciare un grande progetto educativo in tutte le scuole cattoliche del paese per formare le giovani generazioni a diventare costruttrici di pace.
Incontrai 10.000 ex alunni rwandesi per una giornata alla quale fece seguito un convegno di specialisti, provenienti da Belgio, Francia e Germania, oltre che da alcuni paesi africani (Burundi, Congo, Cameroun, Centrafrica). L’esperienza venne replicata negli anni successivi nei vari paesi coinvolti e nel 2023 creammo la “Fondazione Internazionale Religioni e Culture” per sviluppare i principi educativi delle culture africane da mettere in dialogo con la pedagogia internazionale. Il risultato è che da un anno è avviato un centro studi a Kigali, sostenuto da tutte le Conferenze Episcopali dell’Africa e da alcune Fondazioni europee, per promuovere la pace e il dialogo interculturale e interreligioso.
Per i servizi che la Chiesa le ha affidato lei è stato in diverse parti del mondo e ha conosciuto in maniera approfondita realtà sulle quali non sempre c’è la giusta attenzione dei mass media. Per capire l’evoluzione delle trasformazioni in atto nel mondo, dov’è che dovremmo guardare oggi?
Lo scenario mondiale con le sue sfide e contraddizioni sta davanti ai nostri occhi ed ogni giorno si arricchisce di ulteriori elementi che accentuano il cambiamento d’epoca in cui siamo immersi. Credo che dovremmo compiere uno sforzo di analisi più attenta e profonda per andare a scoprire i molteplici fattori positivi presenti nella società che non fanno rumore, ma sono germi di speranza che costruiscono il futuro.
Mi riferisco ai numerosi incontri avuti presso gli organismi internazionali, come l’ONU, l’UNESCO, il Consiglio d’Europa, dove si compiono sforzi per progettare il futuro, ma soprattutto penso alle scuole e Università presenti nelle periferie più abbandonate, dove operano educatori preparati e coraggiosi che formano le giovani generazioni.
Questo stimola ad investire sempre di più nell’educazione e soprattutto aiuta a cogliere nelle giovani generazioni non solo il riflesso delle incertezze del nostro tempo, ma anche la prospettiva che apre a un futuro migliore. La mia esperienza mi ha convinto sempre di più che occorre credere nella capacità dei
giovani di essere protagonisti dei processi di cambiamento della nostra epoca e che, per questo, è necessario offrire ad essi gli strumenti per esprimere in pieno il proprio potenziale. Solo così la speranza di un mondo nuovo può tradursi in un progetto condiviso di crescita e rinnovamento per l’intera società.
E’ lontano dalla sua diocesi di origine da molti anni. Quali sono i legami che non sono mai venuti meno?
Anzitutto custodisco e coltivo i legami familiari e parentali, ed avverto anche un profondo senso di riconoscenza nei confronti delle istituzioni ecclesiali in cui sono stato formato, nelle quali ho condiviso anni di lavoro con molti amici e colleghi laici e religiosi, soprattutto nel campo educativo, culturale e pastorale.
Oltre a questo ciò che non si cancella è il percorso più personale e profondo, legato alle scelte di fede, alla condivisione di ideali di spiritualità che hanno segnato le tappe più importanti della mia formazione sacerdotale e culturale nonché del mio servizio nella Chiesa.
Queste esperienze trasmettono sempre un senso di sicurezza, un punto di riferimento solido anche quando si è chiamati ad occupare ruoli delicati e di grande responsabilità.
Ci sono degli impegni a cui, una volta libero da incarichi formali, vuole dedicarsi in futuro in maniera particolare?
L’impegno che mi sta particolarmente a cuore, che da anni sto accompagnando e che vorrei ulteriormente incentivare, è quello legato alla Fondazione SFERA. Questa parola è un acronimo che significa “Sviluppo, Fraternità, Educazione, Responsabilità, Accoglienza”. Si tratta di cinque principi che sintetizzano il pensiero sociale della Chiesa, cioè lo sforzo di vivere e testimoniare il Vangelo dentro la storia e le sue
sfide e che guarda al mondo come spatium verae fraternitatis, cioè spazio e luogo dove si è chiamati a costruire la fraternità, l’unità e la pace.
Da quindici anni abbiamo avviato la costruzione di un villaggio dell’educazione, “Maison de Paix”, nella Repubblica Democratica del Congo, dove già quasi 500 bambini frequentano i vari ordini di scuola. Ma la prospettiva su cui stiamo lavorando è quella di promuovere qui in Europa, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, percorsi formativi per futuri leader che sappiano impegnarsi nel campo della cooperazione internazionale allo scopo di promuovere lo sviluppo e la pace.
g.c.